C'è stato un tempo, che oggi appare lontanissimo ma che invece non supera un lustro, in cui la frase "ce lo chiede l'Europa" significava la fine di ogni polemica. Se "ce lo chiede l'Europa" allora sarà necessario, utile, persino virtuoso. L'Europa era un'autorità sovranazionale rispettata e temuta, la Cassazione di ogni diatriba politica interna. Questo tempo è finito e, negli ultimi anni, la prospettiva sembra essersi completamente ribaltata: se "ce lo chiede l'Europa" allora ci dev'essere una fregatura, un inganno, un'insidia. Le richieste dell'Europa sono oggi percepite da un numero crescente di cittadini come coercitive e punitive. Naturalmente, l'Unione europea, non è in sé né madre né matrigna, ma è interessante cercare di capire come sia avvenuto questo repentino cambio di percezione prima di provare ad avanzare alcune proposte.
Va premesso che il tempo dell'analisi e persino quello dei suggerimenti è praticamente scaduto, e il calendario degli appuntamenti del 2017 è lì a ricordarcelo. A marzo si vota in Olanda, dove la forza politica favorita nei sondaggi è il PVV del nazionalista Geert Wilders, a fine aprile si vota in Francia, con Il Front National primo partito e, a settembre, in Germania, paese in cui gli xenofobi di Alternative für Deutschland rischiano di diventare la prima forza di opposizione. Insomma, le previsioni sono fosche e non è fantascienza immaginare la foto finale del G7 di Taormina, a maggio, con Marine Le Pen in posa accanto a Donald Trump.
La forza elettorale dei partiti euroscettici è cresciuta in parallelo alla crisi economica e all'emergenza migratoria e l'Europa proprio su questi due fronti ha mostrato il peggio di sé. Non dobbiamo dimenticarci di quello che è successo in Grecia, il paese che ha subito maggiormente la recessione economica, e la brutale severità con cui è stato imposto un piano di "salvataggio" - fatto di tagli alla spesa sociale, alla sanità e alle pensioni - per rientrare da un debito pari al prodotto interno lordo del paese. Nonostante il 61% del popolo greco nel 2015 abbia votato no al Memorandum voluto dalla Troika (formata da rappresentanti della Bce, del Fondo monetario e della Commissione europea), l'austerity fortemente voluta dalla Ue a guida tedesca è stata imposta comunque, in barba ai dati economici che dimostravano come le politiche di soli tagli alla spesa avessero bruciato il 25% del Pil dal 2010 al 2015.
Quello greco è certamente un caso limite, eppure è sintomatico di un atteggiamento delle istituzioni europee in cui troppo spesso il rigore si è trasformato in miopia e l'egoismo dei singoli stati (i creditori, in questo caso), ha asfaltato il principio cardine della solidarietà. Negli stessi mesi, peraltro, si è abbattuta sull'Europa la peggiore speculazione sui debiti sovrani mai avuta nella storia, innescata da una dichiarazione congiunta di Merkel e Sarkozy (Deauville, 2010) che ha aperto le porte al settore privato nel meccanismo di salvataggio dei singoli Stati ed è poi culminata con la firma del Fiscal Compact (2012) e l'estremo tentativo di Mario Draghi di non far saltare l'eurozona "whatever it takes". Alla fine della tempesta la moneta unica si è salvata, la Grecia non è uscita dall'Unione, ma le lacerazioni provocate da quelle scelte hanno spaccato in due il vecchio continente, creando di fatto un asse virtuale tra i paesi del nord contro i paesi del sud, ritenuti inaffidabili.
A spaccare l'Unione anche su un piano orizzontale, poi, ci ha pensato la gestione dei flussi migratori, in modo particolare in seguito all'arrivo massiccio di richiedenti asilo lungo la rotta balcanica. Nel settembre del 2015 era stato solennemente sottoscritto un piano di ripartizione dei migranti tra i 28 stati membri che è stato totalmente disatteso (solo il 3%, ad esempio, di quelli approdati in Italia sono stati ricollocati altrove) con la complicità di tutto l'asse dei paesi dell'est che ha prima accettato l'impegno e poi si è sottratto compattamente, facendo in alcuni casi persino campagne referendarie contro l'arrivo dei profughi. Perché il rigore richiesto al governo greco non è stato applicato a quello ungherese o polacco che hanno disatteso gli accordi sulle quote? Che fine hanno fatto i principi di responsabilità e solidarietà difesi a parole in ogni consesso pubblico e sanciti dai Trattati (art. 80 TFUE)?
La verità è che questa Unione ha smarrito la sua bussola politica e si avvia alle celebrazioni del 60 anniversario dei Trattati di Roma rimuovendo il fatto che potrebbe essere uno degli ultimi compleanni da festeggiare. La pace in Europa potrebbe non essere affatto "perpetua" come sperava Kant due secoli fa e un mix di fanatismo, rabbia e populismo rischia di cambiare rapidamente il volto del nostro continente. In parte, sta già accadendo, basta guardare ai ben sette muri di filo spinato sorti negli ultimi dodici mesi in Europa, o alla sospensione di Shengen in cinque paesi.
Certo, il terrorismo ha dato una grossa mano al processo di disgregazione: la paura è un sentimento che porta sempre chiusura, reazione, protezione. Eppure il progetto europeo, apparso in circostanze recenti così fragile, sconta errori anche di lunga data che in questo contesto sarebbe superficiale trascurare. Ne cito solo alcuni, a mio avviso i più gravi, che forse più che errori potremmo chiamare omissioni. Il primo grande atto mancato è avvenuto a Maastricht nel 1991, quando si posero le basi per la moneta unica e si fissarono i parametri in materia di conti pubblici, ma non si vollero creare (a causa della forte resistenza di Francia e Germania) le basi per una comune politica estera e di difesa, né quelle per un'Europa sociale. Un progetto molto ambizioso, quindi, ma nato zoppo. L'altro grande errore di sottovalutazione risale al dicembre del 2000 quando dopo il lunghissimo vertice di Nizza si decise di allargare l'Europa a dieci paesi dell'est senza in alcun modo soffermarsi sulle conseguenze politiche, democratiche ed economiche che ci sarebbero state in seno ai paesi della "vecchio" nucleo. I capi di Stato passarono quattro giorni e quattro notti a discutere sulla ripartizione dei voti in Consiglio (ossia, su chi avrebbe contato di più dopo l'allargamento) e non si preoccuparono di immaginare quale ruolo i nuovi arrivati avrebbero giocato nei già complicati equilibri europei. Non c'è troppo da stupirsi se, sedici anni dopo, un vasto numero di cittadini britannici abbia votato per la Brexit spaventato più dalla concorrenza interna dei lavoratori polacchi che dai profughi siriani arrivati dalla Grecia.
L'ultima, e forse più grave, occasione persa è stata la mancata ratifica della Costituzione europea, firmata solennemente a Roma nel 2004, ma bocciata da due referendum popolari (in Francia e in Olanda) e poi sospesa, di fatto, subito dopo da Regno Unito, Polonia e Danimarca. La nuova Carta avrebbe dovuto costituire un passaggio importante nella cessione di sovranità dei singoli stati, che invece hanno così mantenuto il controllo della legittimità democratica che ha portato oggi allo strapotere del Consiglio europeo (il vertice dei Capi di Stato) rispetto alle altre istituzioni, in primis il Parlamento.
Eppure, prima di buttar via sessant'anni di conquiste democratiche e di pace, sarebbe giusto ricordarci ogni tanto cosa significa essere europei e riappropriarci di un termine ormai ostaggio delle destre populiste: l'identità. In primis, non dobbiamo aver paura che le nostre specifiche identità, aprendosi, si livellino e si smarriscano, perché l'identità europea è per definizione un'identità molteplice, somma di caratteristiche regionali e nazionali. È un'identità molteplice, ma non è tenuta insieme né dall'etnia né dalla religione, bensì dalle istituzioni e dall'universalità dei principi che esse incarnano. Essere europei significa essenzialmente essere fieri di vivere in un continente in cui vige lo stato di diritto, la parità tra uomo e donna, il rispetto dei diritti umani, la libertà di culto, il pluralismo politico e la democrazia. In un mondo sempre più guidato da autocrati, tutto questo non è proprio secondario. Certo, poi molti stati membri condividono anche la stessa moneta e le stesse regole di mercato, ma è dall'identità valoriale che è necessario ripartire se non si vuole perdere del tutto la missione politica. Chi siamo? Quali valori difendiamo? Pericle nel V secolo a.C. nel suo celebre discorso agli ateniesi, difese l'importanza della democrazia come conquista del suo popolo al grido di "Qui ad Atene noi facciamo così!". Anche noi europei dovremmo sentire l'urgenza di affermare "Qui in Europa noi facciamo così", non tanto perché molti valori della civiltà ellenica sono parte del nostro patrimonio spirituale, ma perché l'identità - e magari persino l'orgoglio - passa attraverso la difesa di quei principi che ci uniscono al nostro interno.
Eppure la difesa dei nostri valori astratti, da sola, non basta.
Questa casa comune chiamata Europa appare oggi come un edificio colpito da un forte terremoto: è ancora in piedi, ma le crepe sono immense e il tetto sta per crollare. Che fare? A mio avviso prima di qualsiasi riforma dei trattati (necessaria) o prima di un esercito di difesa comune (auspicabile), è necessario lanciare un "New Deal" economico, un nuovo corso che inverta le politiche di austerity, in alcuni casi utili, ma nella maggior parte deleterie. C'è bisogno di un nuovo progetto che accolga e vada ben oltre il piano di investimenti promesso da Junker. Probabilmente, se ancora il 60% di italiani sembra non voler abbandonare la famiglia europea è perché continua ad associare a questo status un'idea di benessere. Però, con una disoccupazione giovanile europea al 22% (con picchi del 37% in Italia), con un tasso di ricchezza media per famiglia in continuo calo da 5 anni, con un livello di crescita economica sotto ai due punti percentuali, e con la previsione - sottovalutata - di una crescente "disoccupazione tecnologica" (figlia della sostituzione del lavoro da parte di robot e algoritmi), difficilmente le sirene populiste e nazionaliste smetteranno di incantare.
Servono subito investimenti sui giovani, sulla lotta alle diseguaglianze, sulla creazione di posti di lavoro e sulla tutela dei più deboli, anche attraverso un reddito di cittadinanza europeo.
Il tempo è poco e le previsioni non ispirano ottimismo. Da qui al 2050 infatti a causa di importanti cambiamenti demografici l'Europa rischia di avere 50 milioni di abitanti in meno, il 35% della popolazione sarà over 65 e il peso economico del vecchio continente potrebbe costituire solo il 14% dell'economia mondiale.
A quel punto sì che se avremo perso, nel frattempo, anche il primato dei nostri valori, non ci resteranno che i ricordi. E, probabilmente, molti rimpianti.
@evagiovannini