È stato l’annus horribilis per il Brasile quello appena trascorso. Un anno da ricordare e da mettere agli annali della storia. “Hanno condannato una innocente e consumato un golpe parlamentare: un golpe che è contro tutti quelli che lottano per i diritti in tutte le loro accezioni”. Con queste parole la presidente Dilma Rousseff commentava il voto sull’impeachment dello scorso 31 agosto con il quale veniva destituita dalla carica di presidente della repubblica del Brasile.
Ma torniamo indietro di un anno e ripercorriamo in sintesi le tappe, facendo riferimento all’Almanacco latinoamericano il cui responsabile editoriale è Donato Di Santo. A novembre 2015 il Presidente della Camera Eduardo Cunha autorizza l’apertura della procedura di impeachment contro la presidente in merito alle cosiddette pedaladas fiscais, artifici tecnici che avrebbero consentito al governo di mascherare alcune spese e debiti con alcune banche pubbliche per ridurre le uscite dello stato. In altri termini l’accusa è di aver truccato i bilanci dello stato utilizzando somme ingenti delle banche statali per finanziare i programmi sociali come Bolsa Familha.
Il congresso comincia quindi la procedura di messa in stato di accusa della presidente. La presidente Rousseff dichiara “sono indignata per la decisione del presidente della Camera contro un mandato democraticamente eletto dal popolo brasiliano”. A dicembre il Tribunale supremo federale dichiara nulla la nomina della commissione parlamentare riscontrando vizi di forma e dispone che la Camera ripeta la procedura di insediamento. Il Tribunale supremo federale stabilisce che la votazione per la selezione dei membri dovrà essere pubblica e che, dopo l’esame del caso da parte della commissione della Camera, sarà necessaria una discussione analoga anche al Senato. La presidente dichiara di avere il coraggio di affrontare coloro che vogliono attaccare la democrazia. “Ho ricevuto 54 milioni di voti e il miglior modo per ringraziare quanti mi hanno dato fiducia è avere il coraggio di affrontare le difficoltà di questo momento di crisi, contrastando tutti coloro che aggrediscono la democrazia”.
A gennaio a complicare la situazione interna arrivano nuove accuse in merito allo scandalo “Lava jato”. In questa occasione Lula viene accusato di riciclaggio di denaro di tangenti attraverso investimenti immobiliari. Da parte sua l’ex presidente fornisce spontaneamente alcune dichiarazioni dicendo che non ha mai occultato patrimoni. Il 4 marzo il procuratore Sergio Moro si concentra ancora contro Lula. Oltre 200 poliziotti armati lo prelevano dalla sua casa e, in stato di accompagnamento coatto, viene interrogato dagli inquirenti e immediatamente rilasciato. A Lula è imputato il fatto di farsi pagare da enti e organizzazioni per partecipare a conferenze in giro per il mondo e con questi proventi di finanziare la sua fondazione. Cosa che fanno tutti gli ex presidenti in tutto il mondo. Contemporaneamente, la giustizia brasiliana avvia una indagine per riciclaggio di denaro e occultamento di beni relativamente ad una proprietà agricola nello stato di San Paolo. L’ex presidente rigetta le accuse e conferma di non esserne proprietario.
Intanto il congresso del PMDB, il partito del vicepresidente, vota l’uscita dalla maggioranza e dall’esecutivo, pregiudicando la tenuta del governo della presidente Rousseff e questo ha ripercussioni sia nella commissione per l’impeachment che nella composizione della maggioranza in aula.
Ad aprile il senato vota 55 contro 22 per la procedura di impeachment sospendendo la presidente dal suo mandato per 180 giorni, il tempo in cui il Senato dovrà dibattere con i giudici del Tribunale supremo federale l’esistenza e la sussistenza del crimine di responsabilità e tornare a votare con una maggioranza di 2/3. Dilma dice che dimostrerà al mondo che ci sono milioni di difensori della democrazia in Brasile. Nel frattempo, la Camera vota a favore dell’avvio del procedimento politico con una votazione a scrutinio palese. Nei giorni successivi il Senato insedia la commissione per l’impeachment e vota 16 contro 5 la decisone di rimettere all’aula la discussione nel merito. In questa situazione giunge la decisone del Tribunale supremo federale di sospendere il presidente della Camera per il suo coinvolgimento in atti di corruzione.
Con la sospensione della Presidente, nasce il governo di Michel Temer un esecutivo il cui unico obiettivo è di sopravvivere all’impeachment. Il 31 agosto il Senato vota l’impeachment con una maggioranza di 61 voti su 81. A precedere la votazione una lunga dichiarazione della presidente Rousseff che ricorda i successi che il paese ha vissuto negli ultimi 13 anni. Dice ancora che crede che se ci sarà un voto che autorizzi la sua destituzione senza che venga comprovato un crimine, saremo di fronte a un golpe e di fronte all’elezione indiretta di un governo che non passerà il vaglio elettorale. A ottobre si torna a parlare di Lula con un nuovo filone di indagine per presunte tangenti per 8 milioni di dollari che sarebbero state erogate dal gruppo Odebrecht per realizzare opere in Angola. In una lettera aperta ai brasiliani Lula scrive che “gli accusatori sanno che non ho rubato, che non sono stato corrotto e che non ho tentato di ostacolare la giustizia però non lo possono ammettere, non possono tornare indietro dopo il massacro che hanno organizzato contro di me sui mezzi di informazione. Non è Lula che vogliono condannare ma il progetto politico che rappresenta di fronte a milioni di brasiliani, vogliono distruggere una corrente di pensiero e così facendo stanno distruggendo i fondamenti della democrazia”.
Dalla situazione descritta si comprende che il paese si avvia verso un futuro ricco di incognite. C’è un Presidente, anch’egli inquisito, che dal punto di vista istituzionale e politico è privo della legittimità del voto popolare. Oltre a ciò la maggioranza che lo sostiene è molto diversa da quella uscita dalle elezioni. Sono mutate le alleanze di governo uscite fuori dal voto popolare e la nuova maggioranza potrebbe compiere scelte opposte o differenti da quelle su cui gli elettori si erano pronunciati. Il governo Temer si regge sull’ostilità a Dilma ma non certo su una base programmatica uniforme. Infine, se è vero che l’alleanza PMDB-PSDB per ora regge e si mostra ferma e solida non è affatto scontato che tenga dopo che nelle elezioni amministrative il PSDB è uscito vincitore e potrebbe essere tentato di passare all’incasso di questa vittoria. Saranno questi i temi che accompagneranno la politica brasiliana fino alle prossime elezioni presidenziali nel 2018.
Tutto questo in una situazione in cui pesano due grandi scandali che hanno attraversato tutto lo spettro politico e partitico nonostante la grande enfasi che i media brasiliani hanno dato solo alle inchieste che hanno coinvolto il PT ed i partiti alleati del governo Lula e Dilma. Questi due scandali sono il mensalao e il Lava Jato sugli investimenti miliardari che Petrobras ha avviato per i lavori del pre-sal. Tanto che più della metà dei deputati del paese sono indagati per corruzione e lo stesso presidente della Camera Eduardo Cunha è stato costretto a dimettersi in seguito alle indagini che ne hanno provato l’arricchimento illecito.
È in questa atmosfera che si celebrerà il prossimo congresso del Partido dos Trabalhadores, PT, ad aprile del 2017 che dovrà segnare una svolta nelle alleanze del partito, un profondo ripensamento delle politiche pubbliche e un aggiornamento dell’epistemologia della formazione politica. Un congresso dove, dopo molti anni, il partito si presenta all’opposizione del governo in carica e profondamente dilaniato al suo interno. È urgente ricostruire la credibilità della formazione politica e ricostruire un nuovo progetto politico strategico alla luce dei 13 anni di governo Lula e Dilma e alla luce della mutata congiuntura politica. Il collettivo partitico dovrà fare autocritica e avere il coraggio di cambiare le proprie posizioni. Ci sarà bisogno di un PT che difenda le riforme strutturali democratiche e popolari, un partito che torni a farsi interprete della classe lavoratrice e della classe media, un partito che incarni la lotta sociale e culturale come parte della costruzione di un’alternativa di potere. Il progetto di potere del PT implica trasformazioni o riforme tra le quali quelle istituzionali: finora il partito non è riuscito a portare avanti il progetto di riforma politica che da più parti viene invocata così come non è riuscito a fare la riforma del finanziamento elettorale. C’è necessità di un bilancio serio e autocritico affinché il PT recuperi un dialogo vero con la base sociale di riferimento. Il PT continua ad essere la principale alternativa partitica delle organizzazioni della classe lavoratrice e di resistenza al progetto neoliberista. Ma un ciclo si chiude e le sfide del congresso sono immense. Tra queste, sta quella di avanzare nella discussione programmatica e nella costruzione di alleanze con riferimenti politico-strategici per promuovere un progetto progressista e democratico. Se non saprà cambiare, il partito è destinato alla marginalità abbandonato nel voto dalla classe media che più lo ha contestato in questi ultimi mesi e dalla classe lavoratrice che si è distaccata dopo gli scandali. È un percorso lungo e doloroso ma il solo possibile per tornare a vincere.