Settembre è il mese del ripensamento, cantava Francesco Guccini e, non a caso, Jean Claude Juncker ed Emmanuel Macron hanno scelto proprio il nono mese dell’anno per tenere - il primo dalle aule del Parlamento Europeo, il secondo dalla Sorbona - due importanti discorsi dedicati al futuro dell’Unione Europea.
Dopo un 2016 ormai derubricato ad annus horribilis con il trauma della brexit e l’elezione di Donald Trump, il Presidente della Commissione Europea aveva bisogno di rilanciare l’azione politica del suo esecutivo che, nonostante le speranze di inizio mandato, rischia di passare alla storia per motivi non esattamente gradevoli. Macon, invece, a fronte di un pericoloso calo di consensi in patria e alcune gaffe comunicative, non ha mai fatto mistero di voler centrare la sua presidenza sull’asse Francia/Europa, con l’ambizione neppure troppo nascosta di sostituire Angela Merkel come leader continentale de facto.
I due discorsi, tenuti a pochissimi giorni di distanza l’uno dall’altro, condividono un impianto che può apparire simile a una lettura superficiale: i due presidenti auspicano un rinnovato impegno europeo sul fronte del cambiamento climatico, chiudono le porte - almeno a breve termine - ai negoziati per l’accesso della Turchia, confermano l’impegno dell’Europa per una sempre maggiore apertura dei mercati mondiali e si dicono disponibili a discutere nuove iniziative sul fronte della difesa e gestione delle frontiere.
Insomma, entrambi non nascondono i galloni europeisti ma, anzi, si confermano impegnati sul fronte più avanzato dell’integrazione continentale.
Il punto dove Juncker e Macron divergono non è ideale, bensì di orizzonte: per la Commissione Europea l’Unione può funzionare solo se tutti i ventisette paesi sono coinvolti nei grandi progetti continentali, a partire dalla moneta unica. Il lussemburghese, insomma, immagina un’Eurozona sempre più estesa, capace di includere anche paesi come Danimarca e Svezia che, oggi, non aderiscono all’Euro per scelta.
Macron, al contrario, appare interessato a mantenere l’assetto attuale, addirittura rafforzandolo: propone infatti la creazione di un vero e proprio bilancio per i paesi che utilizzano la moneta unica, separato dal budget europeo e governato da un Ministro delle Finanze. Juncker, al contrario, ha negato con decisione la necessità di nuove istituzioni e, anzi, ha rilanciato proponendo il rafforzamento della figura del Commissario Europeo per gli Affari Economici.
Questa discrasia, seppur ancora piuttosto felpata, ha già iniziato a ripercuotersi sulle cancellerie europee, con risultati non entusiasmanti. Il discorso di Juncker è stato accolto con diffusa freddezza, al limite come dichiarazione d’intenti senza però ricadute reali. Le proposte francesi, invece, hanno convinto l’ormai ex ministro delle finanze tedesco a mettere per iscritto una serie di proposte per la zona euro che sembrano prendere di punta l’attivismo macroniano. Wolfgang Schauble nega la necessità di un bilancio dell’eurozona e, anzi, propone un rafforzamento dell’ESM, dandogli la possibilità di sostenere i paesi in difficoltà solo in presenza di un accordo preventivo con le autorità europee. Sulla stessa linea si è posto l’appena formato governo olandese che, anzi, critica l’allentamento del Patto di Stabilità e Crescita e si pone contro ogni ulteriore concessione ai paesi “spendaccioni del sud europa”. Al momento non sappiamo ancora quale sarà l’orientamento austriaco ma, data la probabile convergenza OVP/FPO, appare chiaro che la linea sarà più o meno simile.
In generale Emmanuel Macron, nonostante alcune uscite dal sapore quasi bonapartista, appare in splendido isolamento: Angela Merkel alleata con il partito liberale sarà costretta a spostarsi a una linea molto più rigida con l’obiettivo di contenere le forze euroscettiche e la Spagna è concentrata sulle sue vicende interne. In questo non esaltante scenario il nostro paese potrebbe giocare un ruolo interessante come testa di ponte tra le ambizioni dell’Eliseo e la rigidità teutonica di Berlino. I pochi mesi che ci separano dalle elezioni politiche, però, indeboliscono l’azione del governo Gentiloni e, il prossimo anno, potremmo passare mesi prima di avere un nuovo esecutivo nella pienezza dei suoi poteri.
Il rischio reale è che la frattura, per ora sottesa, tra Juncker e Macron si trasformi a breve in un effettivo scontro istituzionale sul futuro dell’Unione.
Al netto delle singole proposte e dei dispositivi tecnici che ne conseguono, però, rimane un dato profondo, che tocca il progetto europeo nel suo complesso: l’eterna contrapposizione tra l’Eurozona e il resto dell’Unione. Solo un rafforzamento dei diciannove paesi darà alla moneta unica la forza necessaria per resistere alle sfide globali e, per garantirlo, urgono strumenti robusti, legittimati democraticamente e capaci di risposte rapide. Serve, insomma, la politica, la capacità di mediare fra le due posizioni tenendo insieme obblighi, ambizioni e impegno, altrimenti il rischio - se ognuno tira dalla sua parte - è di trovarsi con una tela irrimediabilmente rovinata.