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IL CICLO D'AUTUNNO. LE LEZIONI DEL VOTO TEDESCO E AUSTRIACO

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IL CICLO D'AUTUNNO. LE LEZIONI DEL VOTO TEDESCO E AUSTRIACO

Dopo le elezioni francesi e la vittoria di Macron, rachitica seppure drogata dal sistema elettorale, secondo alcuni la nuova destra nazional-populista era ormai in declino, e poteva essere legittimamente sconfitta riunendo le forze affini allo status quo attuale. Se di centro destra o di centro sinistra poco importa. Se possibile, si doveva farlo in una nuova sintesi giovanile e nuovista come Macron, con allusione più o meno velata a Renzi quale versione italiana. Ma tutto il ciclo elettorale autunnale (Austria e Germania, senza escludere l’elezione Norvegese di settembre, e gettando un occhio anche alla Nuova Zelanda) dice giusto il contrario sulla forza delle nuove destre: il motore di malcontento che le genera funziona appieno, essendo intatto il regime socioeconomico europeo degli ultimi lustri.

 

Il risultato elettorale nella Germania massima beneficiaria di questo regime, e il fatto che tutto si verifichi con il ritorno ad una (per quanto modesta) crescita, conferma oltre ogni dubbio la negatività del sistema ordoliberale. Anche e soprattutto per questo, inoltre, crollano le forze che fino a ieri potevano formare senza difficoltà un blocco di gran lunga maggioritario per una grossa coalizione degli “accettabili” contro i “bruti”.

 

In Germania il centro-destra rimane sé stesso, liberalconservatore (o ordoliberale, come è più giusto dire in quell’area), ma proprio per questo perde molto consenso, e anche considerando il recupero dei liberali di Fdp, non sarebbe più in grado, a differenza di pochi anni fa, di formare un governo. Nel 2009 la somma dei due partiti giungeva al 49% dei voti, e consentiva un governo di maggioranza parlamentare. Come si ricorderà, nel 2013 la somma dei due partiti arretrava, e i liberali scomparivano dal Bundestag, cosicché ritornava la grande coalizione democristiani-Spd. Oggi la somma dei due partiti arretra ancora (al 44%, stavolta per via di un crollo democristiano di oltre 8 punti) ed è lontanissima da una maggioranza.

 

L’Austria mostra invece un centro-destra che muta per “sindrome ungherese”: i vecchi democristiani (in Austria Övp) assumono contenuti nettamente di destra, e grazie a ciò si verificano due effetti: grazie a questo riescono a crescere, e, inoltre, possono aprire alla nuova destra identitaria/nazionalista/xenofoba. Usandola come sostegno parlamentare (è l’ipotesi che il polo di centro destra svedese sta valutando, per tornare al potere il prossimo anno) o come partner di governo (è quanto i liberal-conservatori norvegesi, deboli come polo di centro-destra classico, hanno già fatto nel 2013 e continuano a fare, dopo le elezioni di questo settembre).

 

Si manifesta anche, palesemente, un effetto centro-periferia, o meglio una declinazione geografica del fatto che certe zone della società sono trascurate e neglette come settori del mercato del lavoro e del mercato interno. In Austria la provincia rispetto alla grande Vienna si differenzia poiché la destra è molto più forte nella periferia. Ma la nuova destra è di recente avanzata anche a Vienna. In Germania i Länder orientali vedono AfD crescere fino al 30%, ma senza un raddoppio di questo partito anche ad Ovest (che demograficamente costituisce almeno l’80% del totale) non ci sarebbe stato il risultato nazionale del 13%. Un problema di periferie, geografiche e sociali (spesso ambedue) si avverte ovunque, anche nei paesi ad economia più forte, per esempio scandinavi e nordici. Anche qui infatti prosperano le nuove destre. Nell’attesa di tornare ad una profonda e sistematica riforma sociale (solo con una domanda interna proporzionale al successo nelle esportazioni si recuperano le periferie geografiche e sociali) intanto la presenza o meno di una certa offerta politica può fare da argine. Si è parlato di scarso successo della Linke tedesca (un’avanzata lieve al 9,2%, in realtà) ma la sua prestazione nei Länder dell’est rimane molto importante, al 17%, il che certo costituisce una differenza con l’Austria, dove un partito simile non esiste. L’assenza di una Linke in Austria rende alla Spö sei punti più della Spd, ma d’altro canto in Germania la presenza della Linke contribuisce a dimezzare il risultato della nuove destra xenofoba rispetto all’Austria (la Fpö è il doppio di AfD).

 

La Spö, quindi, anche per questo fa molto meglio della Spd: rimane intorno al 27%, cioè conferma la propria percentuale nonostante un ritorno al voto non indifferente degli ex astenuti: la sua prestazione è quindi migliore di quanto potrebbe sembrare, mentre per la Spd non vi sono appigli. Tuttavia, va anche valutato che un forte afflusso verso la Spö è dovuto agli ex verdi, ovvero al loro spaccarsi in due (Verdi e lista Pilz). I voti nuovi sono tutti buoni, come è scontato, ma se la questione è il recupero di consensi popolari attratti dalle nuove destre non è questo il segnale giusto: l’opinione pubblica ambientalista e liberal, perlopiù appartenente ai ceti urbani e garantiti, non è la conquista più strategica da fare oggi. Anzi il limite, forse il rischio, di questo risultato è che la socialdemocrazia austriaca risulti un bastione di opposizione “liberal” nei confronti di un voto popolare che non si riesce a riportare a sinistra (nonostante i segnali restrittivi sull’immigrazione del suo ex cancelliere Kern: il massimo della infruttuosa contraddittorietà). Ciò si aggiungerebbe al danno già arrecato da tanti anni di moderatismo nella grande coalizione, e  aprirebbe ad una cultura liberal del tutto diversa a quella degli agli anni 1970. Allora il socialismo europeo partiva da un’egemonia nel voto popolare grazie alla propria capacità/credibilità nel riformare il capitalismo e il mercato, ma riusciva ad avanzare ancora, e toccare il massimo della propria espansione aggiungendovi i nuovi diritti e le nuove libertà (fra tutte la libera maternità). L’effetto che ne sortiva era una pratica dell’eguaglianza sistematica, che sgorgava dalla riforma sociale e quindi appariva coerente poiché non trascurava ma anzi includeva tutte le persone con sistematicità (sia nel benessere materiale sia nei nuovi diritti). Ma da questo oggi la socialdemocrazia europea è lontana.

 

Tornando poi al problema delle periferie, sociali o geografiche, in Norvegia in settembre abbiamo assistito ad una diversa soluzione. La nuova destra arretra leggermente, pur confermandosi al governo, e ha successo il Senterpartiet (10,3%), ovvero il vecchio “Centro” di zone rurali e costiere, che rappresenta gli interessi non metropolitani e li mantiene in una collaborazione con la socialdemocrazia (come nei governi fra 2005 e 2013). Inoltre hanno una buona prestazione il pur ancora piccolo Rødt, il partito “rosso” all’estrema sinistra (2,4%) e i socialisti di sinistra (6%). La socialdemocrazia norvegese invece è al 27%, risultato insoddisfacente per i propri standard, ma che la mantiene nettamente al primo posto (secondi i conservatori del partito Destra che calano sensibilmente). Tutto ciò rende nel complesso sempre possibile un ricambio totale di governo, che pareva in effetti vicino fino a questa primavera. Non è così in Germania né in Austria, o per grande debolezza della socialdemocrazia (Spd) o per mancanza di partner adatti  (nella sinistra radicale o nei delusi delle periferie) che nell’insieme si possano approssimare ad un governo.

 

C’è tuttavia  un elemento che per ora manca a tutte le socialdemocrazie citate, ovvero la capacità di aprire un rapporto sufficientemente dialettico e soprattutto non giudicante verso gli elettori attratti dalla protesta di destra. Proviamo ad illustrare la questione con due esempi odierni: il buon successo del Labour neozelandese alle recenti elezioni del 23 settembre e la linea attuale della socialdemocrazia danese. Dopo essere piombato al 25% nella precedente tornata, il partito neozelandese è risalito di 12 punti, ed oggi, dinanzi ad un calo notevole dei liberalconservatori (dal 47 al 44%) si appresta a formare il governo con a capo la sua leader Jacinda Ardern. L’equilibrio della coalizione in via di formazione appare interessante: la sosterranno sia i verdi, partito progressista, sia i nazionalpopulisti relativamente moderati di New Zealand First. L’agenda, a quanto sembra agli esordi, è un mix di nuovi diritti (assicurare la libera decisione di maternità alle donne, non ancora pienamente acquisita nella religiosa Nuova Zelanda) ambientalismo (finalità simbolica: rendere balneabili tutti i fiumi) ritorno in primo piano della questione sociale (introdurre una tassa redistributiva sui capitali in un paese in cui manca totalmente, acquisire così risorse per eliminare la povertà infantile, rendere gratuita, come Corbyn, l’istruzione terziaria) e limiti all’immigrazione (almeno 20.000 ingressi in meno). In sostanza, secondo esponenti di punta della socialdemocrazia nordica che la conoscono di persona, Ardern sta costruendo la coalizione di governo a guida laburista secondo criteri simili alla leader socialdemocratica danese Mette Fredriksen.[1] L’idea, in Danimarca come il Nuova Zelanda, è riaprire il contatto con ceti popolari migrati a destra inaugurando uno scambio sensato con i partiti della destra populista (New Zealand First o Dansk Folkeparti): puntare alla centralità delle riforme sociali e fiscali redistributive concedendo limitazioni non drastiche dei flussi immigratori. E senza, sia chiaro, mai negare i diritti e la irreversibilità di una società multietnica.

Secondo alcune analisi,[2] il Labour neozelandese è stato frenato nel proprio impeto innovatore proprio da cautele moderate sulle riforme fiscali. Per questo il risultato poteva, secondo i sondaggi pre-elettorali, essere migliore di quanto ottenuto. Dopo avere superato una parziale delusione uscito dalle urne, il Labour neozelandese cerca quindi ora di aprire una nuova strada, rivolgendosi alla totalità del proprio elettorato potenziale, cercando di ricomporne ansie ed istanze popolari in un patto nuovo. Qualcosa di simile fa Corbyn con una linea che non si nega la comprensibile impopolarità della Ue (e quindi il responso Brexit) ma indirizza il tutto in una direzione nuova. 

 

Danesi, britannici e neozelandesi cercano insomma con idee nuove di uscire dal vicolo angusto e cieco in cui sono peggio intrappolati i loro compagni tedeschi ed austriaci, per ora privi di ogni strumento di riscossa: mancano loro infatti gli appoggi a sinistra, la credibilità nel proporre la riforma economico-sociale, la capacità di riorientare il voto popolare perduto a beneficio di destra e astensione. Questi insomma sono gli insegnamenti del ciclo elettorale d’autunno per i partiti del socialismo democratico. Insegnamenti che non è difficile accostare alla situazione italiana.

 

[1] https://piopio.dk/socialdemokrater-danner-regering-new-zealand/

[2] http://www.stateoftheleft.org/turns-still-change-party/

Pubblicato da : Paolo Borioni, rightslider

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