Può succedere che un Segretario regionale si dimetta dopo l'esito disastroso del voto, lamentando di essere stato totalmente estromesso dalla definizione delle liste per le elezioni politiche, per poi tornare a guidare la Commissione per il Congresso di quella regione su proposta di chi lo aveva defenestrato.
Può succedere che il capo di un movimento interno al partito, autodefinitosi con senso del ridicolo "partigiani del PD" e sorto contro lo strapotere di un Senatore renziano, vada a fare il vice di quel Senatore una volta diventato Segretario.
E può succedere, ancora, che un Congresso di una regione importantissima sia risolto nel Partito nato dalle Primarie a colpi di maggioranza negli organismi di garanzia e, poi, a tavolino, nella Commissione per il Congresso, per mancanza di contendenti con quattro voti a tre.
E può inoltre accadere che il Senatore, divenuto per questa via Segretario, si adoperi per la costruzione di un improbabile "fronte antipopulista" che non è altro, in verità, se non il tentativo di riproporre in tono minore l'assetto trasversale e consociativo che ha spesso retto con esiti disastrosi diverse stagioni del governo regionale.
Può succedere, ed è successo, in Sicilia.
Si sa che l'isola, anticipa, non di rado, processi di portata nazionale. Va letto così il tentativo di costruire un soggetto politico di centro che unisca una parte del PD, Forza Italia e settori del mondo democristiano storicamente alleati con il centro-destra. Assumendo palesemente i caratteri di una forza intermedia che diventi riferimento delle vecchie classi dirigenti. Lo potremmo definire un macronismo insulare, senza però alcuna ambizione maggioritaria. L'operazione, a partire dal modo in cui si è affermata la candidatura di Faraone, ha basi fragilissime eppure ci sono settori in tutto il Paese che stanno guardando a ciò che sta avvenendo nel PD in Sicilia come alla prova generale di qualcos'altro.
Soltanto un esito chiaro e univoco del Congresso nazionale può sconfiggere questo eterno ritorno.
