Il Venezuela sta forse attraversando una delle fasi più difficili e complesse della sua storia recente. La situazione nel paese continua a essere grave. Ormai è cronica la penuria di beni di prima necessità e di medicinali e le code nei negozi e nei supermercati sono epocali. Caracas e le principali città del paese sono teatro di manifestazioni di protesta che hanno fatto 124 morti. L’inflazione è ormai a tre cifre e raggiunge il 500% e il Pil è in caduta libera, meno dieci punti rispetto allo scorso anno, il paese essendo ormai in recessione da diverso tempo, il disavanzo fiscale è pari al 17% del Pil. E stiamo parlando di un paese che ha le più vaste riserve di idrocarburi del pianeta. D’altra parte il comune denominatore di tutte le iniziative del governo sembra la loro improvvisazione, il loro carattere erratico, la mancanza di analisi sulle conseguenze non desiderate, un problema di strumenti teorici o metodologici per far fronte alla realtà che non funzionano. E a poco vale il chiamare a responsabili della crisi gli Stati Uniti o la grande borghesia venezuelana, forze del capitalismo interno e internazionale che sarebbero impegnate per cancellare la rivoluzione bolivariana. La realtà è molto più complessa e chiama in causa l’oro nero che ne ha condizionato lo sviluppo. Una manna petrolifera che ha consentito di finanziare programmi sociali pregevoli. Ma quando il prezzo del petrolio è crollato sono emerse le distorsioni e le debolezze di un sistema economico poco sostenibile insieme a una spesa pubblica fuori controllo. Da qui l’attuale deriva economica venezuelana.
Dal punto di vista istituzionale, invece, alcuni fatti hanno caratterizzato il recente periodo e fra questi il 2015 si era chiuso con una storica sconfitta del partito di governo alle elezioni legislative. Ripercorriamoli con l’ausilio dell’Almanacco latinoamericano. Dopo 17 anni la MUD, Mesa de Unidad Democratica, aveva ottenuto il 56,6% dei voti contro il 40,8% del PSUV, il Partito socialista unito del Venezuela. In termini di seggi il governo Maduro può contare su una minoranza pari a 55 scranni, mentre la MUD di 112. Si apriva dunque uno scenario del tutto inatteso. L’insediamento della nuova assemblea nazionale apriva infatti una fase politica di cambiamento nel paese che, se da un lato poteva aprire nuovi spazi politici all’opposizione che è chiamata a misurare la propria forza di concertazione interna anche nell’elaborazione di un’agenda comune condivisa di governo, dall’altro lato dà l’opportunità alle anime del chavismo di ricollocarsi in vista delle scadenze future. Appariva chiaro che la sconfitta è intesa da Maduro come un dato temporaneo ed appariva chiara la consapevolezza della necessità di studiare gli errori e pensare ad un nuovo futuro. D’altra parte dalle urne emerge evidente l’invito al chavismo a riplasmare i propri contenuti ed i propri equilibri interni distanziandosi sempre più dall’ala più oltranzista, guidata da Diosdato Cabello. Va detto, tuttavia, che in questi mesi e fino ad oggi il parlamento ha giocato un ruolo sempre più marginale visto che Maduro ha governato con decreti presidenziali invalidando le molte leggi approvate dal parlamento e consolidando una crisi istituzionale che non ha precedenti.
Dopo la sconfitta alle urne, il presidente Maduro tiene il tradizionale discorso di inizio anno nella sede parlamentare. Nel suo discorso mantiene un tono di apertura e coinvolgimento di tutti i parlamentari pur ribadendo alcuni aspetti fondamentali come la connivenza dell’opposizione con la guerra economica che ha portato all’esito elettorale del 6 dicembre. E confermando la sua contrarietà alla legge di amnistia per i prigionieri politici. Infine il presidente chiede a tutti i parlamentari un voto per approvare l’ennesimo decreto di emergenza dedicato alla crisi economica. La risposta dell’opposizione è negativa “questo governo non risolverà nulla, finché permarrà al suo posto tutti i problemi del Venezuela peggioreranno, finché non si porrà fine democraticamente a questo governo il Venezuela non recupererà e non si potranno risolvere alcuni dei suoi problemi”.
Ancora elementi di forte tensione a marzo con il parlamento che approva la legge di amnistia con il netto rifiuto della minoranza dei maduristi. La legge se entrerà in vigore consentirà di liberare circa 70 prigionieri politici dei partiti di opposizione. Continua intanto il tentativo del governo di tenere sotto controllo la situazione economica: viene introdotto un nuovo sistema cambiario per attrarre valuta nel paese. Il 2 maggio Papa Bergoglio manda una missiva a Maduro in cui si fa appello alla necessità di superare la crisi interna ed agevolare il dialogo. A destare particolare preoccupazione il progetto di referendum revocatorio in particolare il procrastinarsi del Consiglio Nazionale Elettorale di fornire alla MUD i moduli necessari per la raccolta delle firme. A fine aprile i moduli sono rilasciati riconoscendo la legittimità delle 2000 firme preventive al fine di avviare la procedura di raccolta delle firme. L’opposizione accusa il governo di boicottare il processo: nel caso i ritardi accumulati determinassero la proclamazione del referendum solo nel 2017 ciò impedirebbe la convocazione di nuove elezioni. Infatti nell’ultimo anno di mandato presidenziale invece delle elezioni anticipate la costituzione prevede che il presidente revocato sia sostituito dal vice presidente. Cosa che l’opposizione non vuole.
A maggio timidi spiragli di dialogo. Spunta l’ipotesi di mediazione di Unasur formata dal segretario generale Ernesto Samper, dal presidente della Fondazione UE-Celac Leonel Fernandez e dall’ex Presidente Rodriguez Zapatero.
Nel frattempo la comunità internazionale segue con apprensione l’evolversi della situazione tra governo e opposizione. Il primo settembre si svolge a Caracas una manifestazione di circa un milione di persone, contemporaneamente al centro di Caracas sfilano diverse migliaia di sostenitori del Psuv convocati da Maduro. Nonostante il clima di tensione altissimo, le manifestazioni si svolgono pacificamente. Nel frattempo la situazione economica è fuori controllo. A ottobre una nuova lettera del Vaticano firmata dal Segretario di stato Pietro Parolin invita al dialogo per la pace nel paese. Lettera che viene considerata da molti un tentativo per favorire il dialogo tra maggioranza e governo.
Nel frattempo il Venezuela ritorna al centro delle notizie sul mondo a causa della cronica mancanza di beni di prima necessità. Su molti giornali internazionali viene dipinta la tragicità della crisi e l’incapacità gestionale del governo di farvi fronte oltre all’inutilità delle misure di emergenza che non hanno apportato alcun progresso nella produzione e nella distribuzione.
A dicembre viene fatto l’annuncio della posta in circolazione di biglietti di grande conio e il posteriore ordine di ritirare tutte le banconote da 100 bolivares. Scoppia il panico sui mercati finanziari e sulle piazze con code interminabili di cittadini che si recano negli istituti di credito per cambiare le monete. Di fronte a tutto questo Maduro posticipa il cambio e il ritiro delle monete al 20 gennaio. L’anno si apre con un rimpasto di varie posizioni di governo: si tratta di una rilevante modifica agli equilibri interni dell’esecutivo che avranno ripercussioni sul futuro politico del paese. Mentre rimane aperto il tentativo di mediazione del Vaticano l’opposizione resta in attesa della definizione di un percorso elettorale per la convocazione del referendum revocatorio la cui procedura è ormai sospesa. Costante situazione di tensione nel Paese anche a marzo con la decisione della corte suprema di giustizia di avocare a sé la funzione legislativa dell’assemblea nazionale, togliendo l’immunità ai deputati e ampliando i poteri del presidente Maduro. La decisione ha provocato una sollevazione dei deputati di opposizione ed è stata considerata una sorta di colpo di stato per aggirare le prerogative del parlamento dove l’opposizione è maggioranza. Lo scorso 1 aprile la corte fa marcia indietro. A maggio si stabilisce che le elezioni per l’Assemblea Costituente si terranno il 30 luglio, Assemblea che secondo Maduro è l’ultima occasione di dialogo nazionale nella grave crisi economico e sociale del Paese.
La proposta ha ulteriormente alimentato le proteste. I portavoce della MUD hanno qualificato l’iniziativa come una frode costituzionale che prolunga il colpo di stato. Secondo diversi analisti lo stesso Maduro ha definito le condizioni delle elezioni secondo un disegno che cerca di compensare una eventuale sconfitta. Il Procuratore generale della Repubblica, Luisa Ortega, ha invitato tutti i cittadini a respingere l’Assemblea nazionale costituente, considerando che il decreto fissato dal Presidente non soddisfa gli estremi di legge perché sono solo i cittadini ad avere l’autorità di convocarla. Tuttavia il tribunale supremo di giustizia si è già pronunciato al riguardo e ha sentenziato che il Presidente Maduro possiede la facoltà di convocare un’assemblea costituente senza una previa consultazione referendaria. Luisa Ortega viene destituita dal suo incarico con l’accusa di gravi omissioni nell’esercizio delle sue funzioni.
Nel frattempo, l’opposizione in Parlamento ha convocato un referendum non ufficiale e non riconosciuto dal CNE per determinare se i cittadini sono d’accordo o in disaccordo con l’iniziativa presidenziale. Nel referendum è stata anche chiesta un’opinione sul sostegno delle Forze Armate per ristabilire l’ordine costituzionale e se sono d’accordo con il rinnovo delle autorità pubbliche e la creazione di un governo di unità nazionale. 7.676.894 persone si sono espresse in maniera inequivocabile contro la proposta di dare vita ad una assemblea costituente. “Un serio rischio per la democrazia” così il Vaticano ha definito questa ipotesi; anche il Presidente del consiglio Paolo Gentiloni l’ha definita un’opzione che dividerebbe ancor più il paese anziché unirlo. Si auspica il dialogo sulla base di quattro principi: liberazione di tutti i prigionieri politici; l’apertura di un canale per gli aiuti umanitari; il rispetto delle prerogative costituzionali del parlamento e la convocazione di elezioni libere a suffragio universale. Lo scorso 30 luglio si sono svolte le elezioni per l’Assemblea costituente in un clima da guerra civile e con morti (dieci) e feriti. Il primo effetto della decisione di Maduro di portare avanti il suo progetto è che dal 31 luglio il Venezuela ha un ‘assemblea esclusivamente officialista rifiutata da tutti i partiti della MUD e dai partiti critici del chavismo. L’astensione è stata molto elevata. Secondo il Consiglio nazionale elettorale la partecipazione si è attestata al 41,43% dei votanti, circa 8 milioni, mentre secondo l’opposizione è stata del 12%. Con la giornata del 30 luglio il Venezuela comincia una nuova tappa: la nuova assemblea nazionale costituente sostituisce il Parlamento eletto nel 2015 e composto da una maggioranza critica nei confronti del chavismo.
Quel che è chiaro è che il Venezuela è un Paese ancor più diviso e segnato dalla violenza nel quale ogni possibilità di dialogo – auspicata nelle ultime settimane dal lavoro di Rodriguez Zapatero e culminata con la liberazione di Leopoldo Lopez – pare essere svanita. Perù, Argentina, Messico, Colombia e Panama in America latina e Spagna in Europa si sono affrettati a comunicare che non riconosceranno gli atti dell’Assemblea Costituente. Intanto l’Assemblea costituente si è riunita già due volte e si è discusso del suo funzionamento e si è designata Delcy Rodriguez come presidente della Commissione per la verità, giustizia e riparazione delle vittime, commissione incaricata di investigare sui crimini commessi in questi ultimi mesi. L’Assemblea si è anche pronunciata all’unanimità sulla rimozione della Procuratrice generale Luisa Ortega Diaz. Intanto il Mercosud riunito a San Paolo del Brasile ha deciso di escludere il Venezuela dall’organizzazione, di cui era membro dal 2012. Anche dal Vaticano arriva la richiesta di sospendere la nuova costituente: la Segreteria di stato esprime la propria preoccupazione per l’aggravamento della crisi.
Ad agosto si riaffaccia un tentativo di facilitazione di un processo di dialogo a seguito di una proposta avanzata tra gli altri dall’ex presidente spagnolo Zapatero e dal Presidente della Repubblica Dominicana Medina su una piattaforma che dovrebbe vedere l’identificazione di un tavolo con osservatori di diversi paesi della regione ed il Vaticano e con un’agenda che tenga conto di punti condivisi dall’opposizione. Intanto l’assemblea costituente ha avviato il suo lavoro su cinque tavoli tematici: sostituzione del petrolio quel fonte di energia; riserve petrolifere del Venezuela; riserva energetica degli USA; fondi di investimento che influenzano lo sviluppo dell’industria petrolifera mondiale e partiti laboratorio vs stato nazione. L’Alto Commissariato dell’ONU per i diritti umani ha chiesto al consiglio ONU riunito a Ginevra di avviare un’indagine contro il Venezuela per presunti crimini contro l’umanità. Per la delegazione venezuelana le accuse sono senza fondamento e hanno rilanciato accusando gli Stati Uniti di violazione dei diritti umani affermando che il presidente Trump ha minacciato l’uso della forza militare in Venezuela.
Dal punto di vista politico interno, se il PSUV si trova in una fase di grande ripensamento per riuscire a far fronte alla crisi interna, la MUD che cercava di porre fine al regime di Nicolas Maduro per la strada elettorale o di pattare una transizione con il governo mediante un anticipo delle elezioni presidenziali, è anch’essa in fase di ristrutturazione. Entrambe le strategie non solo non hanno funzionato ma hanno messo in luce serie differenze interne che esistono all’interno dell’antichavismo. Quindi il 2017 si presenta per l’antichavismo come un anno di ricostruzione interna dopo un 2016 che è iniziato in modo ottimistico. Non ottenere il revocatorio e il tramonto della via del dialogo con il regime hanno lasciato molto debilitata l’opposizione. Si avverte la necessità di trasformarsi in una forza molto più coesa e coerente che sia capace di presentarsi come un’alternativa credibile per il futuro. Il blocco oppositore deve passare dall’essere un’alleanza elettorale all’essere un’alleanza politica. La strada è ancora lunga.