È trascorso quasi un anno dalla sua presentazione, e mancano pochi mesi alle elezioni europee, ma del “Piano per l’infrastruttura sociale d’Europa” (Boosting Investment in Social Infrastructure in Europe) non si trova traccia nello stanco rituale che informa il dibattito politico italiano, cui neppure quel che resta della sinistra italiana riesce a sottrarsi.
Eppure, la “necessità di salvare l’Unione Europea, cambiandola radicalmente” è diventata quasi un luogo comune nel discorso pubblico di questi mesi. È perciò quantomeno curioso il disinteresse generale per questo strumento di lavoro predisposto da una task force di esperti guidata da Romano Prodi, su incarico dell’associazione europea degli investitori di lungo termine (“ELTI”), della quale fa parte anche la nostra Cassa Depositi e Prestiti.
Strumento che ha per oggetto esattamente il tentativo di mettere in campo una vasta strategia su scala continentale, fatta concretamente e solidamente di investimenti destinati a rilanciare e aggiornare il sistema del welfare, che, come osservano giustamente gli estensori del Piano, ha costituito nel secondo dopoguerra il tratto distintivo e pregiato di gran parte delle nazioni della “vecchia Europa”, nella sua capacità di coniugare economia di mercato con il binomio protezione-promozione sociale.
Se guardiamo a sinistra, la disattenzione qui segnalata si fa addirittura paradossale, ed esemplificativa dell’afasia in cui appare bloccato il campo politico cui propriamente dovrebbe spettare il compito di prosciugare le ingiustizie. Dalle quali derivano molti dei fenomeni più inquietanti del nostro tempo: il ritorno dei nazionalismi radicali, le tensioni sociali e culturali su base etnica, religiosa e razziale, la progressiva dissoluzione dei fondamenti della convivenza civile, la stessa crisi delle democrazie liberali, il rischio di implosione della “casa comune europea”.
Collocato in tale contesto, il Piano Prodi non è la ricetta per tutti i mali, ma mette sul tavolo l’idea di affrontare, per la prima volta in modo coordinato al livello UE, un rilancio del welfare fondato su un massiccio programma di investimenti sui fronti della sanità, della scuola e della casa. I quali, oltre a centrare obiettivi specifici in ciascuno dei settori coinvolti, sarebbero keynesianamente in grado di mobilitare lavoro e occupazione tanto in fase di realizzazione quanto nella successiva fase di esercizio.
Il Piano parte da una diagnosi impietosa ma realistica: l’invecchiamento della popolazione europea, il calo delle nascite nella componente demografica endogena, il carattere strutturale dei flussi migratori, la sempre più difficile reperibilità di risorse pubbliche, compongono un mix rompicapo, nel quale la crescita esponenziale della domanda di protezione-promozione sociale fronteggia l’inadeguatezza della finanza pubblica teoricamente necessaria per soddisfarla.
Il Piano si cimenta con questa contraddizione e prova a fornire alcune piste di soluzione molto interessanti e connotate dai seguenti principali elementi. Il primo riguarda l’entità finanziaria complessiva: la stima degli estensori è che lo scarto su scala europea (certo, diversamente distribuito tra le diverse aree geografiche) tra risorse necessarie e risorse disponibili si aggiri intorno ai 100-150 mld di euro all’anno. L’orizzonte è posto al 2030 e ipotizza la mobilitazione complessiva di circa 1500 mld di euro complessivi.
Il secondo elemento chiama in causa la ricerca dei finanziamenti, che non si può immaginare derivino solo da risorse pubbliche. L’ipotesi è allora quella di utilizzare queste ultime, ad esempio quelle del cosiddetto Piano Juncker, quali moltiplicatori di investimenti derivati da fonti private o da investitori istituzionali, rendendo sistematiche talune “buone pratiche”: ad esempio quelle maturate nel nostro Paese da Cassa Depositi e Prestiti intorno all’housing sociale e all’edilizia scolastica, attraverso l’uso dei fondi di investimento alternativi. Naturalmente estendibile ad altre tipologie di fondi istituzionali, dai fondi assicurativi a quelli pensionistici.
Il terzo elemento, molto sfidante anche al fine di ricostruire intorno alle politiche per un nuovo welfare un modello di relazioni istituzionali e comunitarie, è quello che fonda il Piano sul protagonismo degli enti locali. Una delle azioni previste è, infatti, proprio quella di fornire loro il supporto necessario a sviluppare progetti credibili e a metterli in rete, così da renderli appetibili per investimenti in cerca di rendimenti sicuri.
Naturalmente, come dicono gli autori, “la strada da fare è ancora molta”. Ma è sorprendente davvero che, con le elezioni europee alle porte, con la necessità disperata che la sinistra ha di provare e mettere in campo proposte che scaldino, se non il cuore, almeno le attese concrete di milioni di cittadini divenuti loro malgrado “euroscettici”, e mentre si discetta fino alla noia di “fronti” e “alleanze”, di questa possibile strada per riavvicinare l’Europa agli europei non si sia nemmeno ritenuto utile fare un cenno.